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Le Giornate di Modena

Braken
Quello era il giorno.
Corrieri avevano informato Braken che il viaggio era proseguito senza intoppi.

Così aveva atteso. Avvolto in un nero mantello era rimasto per ore durante la notte a sorvegliare da lontano la strada da cui sapeva sarebbero giunti.

Poi all'alba li vide.
Due uomini, forse due fantasmi.
Un carro.

Questo era tutto.
Questo era tutto quello che poteva essere. Nulla di più.

"Finalmente. Ben tornati a casa"
Amsterdam707
Il lavoro disperato, angosciante, al limite delle tue forze, è quello che ti permette di spegnere il cervello, e di non pensare, e di non sentire.

Cioc ... cioc ... cioc


E, tra un ciocco di legno e l'altro, mentre costruisci quella pira, se proprio devi pensare, fa' che sia qualcosa di geometrico, di regolare, che non abbia nulla a che vedere con la tua anima e il tuo cuore:

legno di faggio per la sua resistenza

legno di abete per la sua tenerezza

legno di noce per la sua durata

legno di pino per il suo profumo

legno di pioppo per la sua leggerezza

legno di rovere per la sua durezza

legno di castagno per la sua elasticità

legno di frassino per la sua integrità

legno di salice per la sua capacità di guarire

legno di ulivo, perchè il suo albero è eterno.

... CIOC.



E quando la catasta è divenuta ben più alta di te, alzi la testa e ti rendi conto che il lavoro è finito, e non puoi più fare nulla.

Puoi solo subire la consolazione del pianto.
_________________
Tergesteo

La pira era stata preparata con cura, come quando i parenti preparano la culla al nascituro o la stanza nuziale agli sposi : si era lavorato con calma e devozione, accudendo quella catasta di legno senza fretta ma non con indolenza.
Sembrava che non si volesse far scorrere il tempo. Ogni gesto avvicinava i presenti al commiato,
lentamente volevano evitare che anche un poco di loro morisse.

La pira era costituita da tronchi robusti , intervallati da fronde tagliate da alberi resinosi.
L'odore del legno tagliato che gocciolava resina era forte , quasi inebriante.
Per aumentarne la vampa, si ebbe cura di cospargere la pira d'un poco d'olio.


Su quel letto silvestre riposava Lei, coperta da una stoffa bianca.

Ma l'ineluttabile prima o poi va affrontato.
C'era da passare una torcia accanto ad una catasta di legna.
C'era da salutare una amica e una sorella.

Tutti erano presenti per un unico scopo e ironia, l'ultima grande ironia, nessuno voleva prendervi parte.

Ma alla fine una mano tremante avvicinò la fiamma alla base della catasta.
La fiammella saltò allegra dalla torcia alla legna.
Dapprima timida, come volesse guardarsi d'intorno, poi più spavalda cominciò a scivolare lungo olii e resine guizzando e nascondendosi fra tronchi e ramaglie.


Un riverbero rosso cominciava a riflettersi sul terreno, mentre sbocchi di fuoco uscivano a prendere aria dalla base della catasta, circondandola.

Il fuoco si fece deciso.
La fiamma si alzò.
Ora era difficile distinguere in quel muro di fiamma il corpo di lei.
Ma cionondimeno, benché dense volute di fumo e sfrigolanti riccioli di fiamma danzassero nell'aria, le vampe ancora non ebbero il coraggio di intaccare la stoffa del sudario.


Esitavano, tentennavano, forse addirittura speravano di essere richiamate dall'ingrato compito.
Ma alla fine una fiamma, coraggiosa o infame non è dato sapere , si inerpicò verso il cielo ma pentita chinò la testa verso il corpo di lei e mordendo la stoffa, decise di portarla con sè.

Rapidamente altre fiamme si unirono alla danza, strappandole in cenere il sudario e mettendo a nudo la pelle cerulea.

Era l'ultima immagine.
Il fuoco sembrò allentare per un poco la propria stretta, sembrò scostarsi per permettere a tutti un ultimo sguardo.


Poi decise che era tempo.
E lo spettacolo si concluse in un sipario di fiamma.

Tergesteo rammentò.

“Iniziò tutto davanti a un fuoco a Milano … non poteva finire diversamente” si disse il Folle.

“Vedi, quel fuoco continuerà ad ardere e a bruciare e ad illuminare anche se non lo volesse. E' la sua natura, non l'ha scelta. Gli è toccata in sorte". “

Rammentava ogni singola parola.


“Il fuoco per sua natura arde e riscalda e illumina.
Parimenti brucia e consuma.
Fuoco sei stata … al fuoco sei tornata.

Attraverso un boccale di birra,
la vita di un soldato è solo un dettaglio,
qualcosa di indistinto che accade
in un breve intervallo.
Un frammento, una scheggia del tempo
Che non bastò neppure a dirti addio.
Però com’eri bella e ridevi.
Ogni ragione ha la sua guerra.
Tu hai preso il torto e ridevi.

Addio , Sorella di morte
mormorò allontanandosi dalle fiamme.

Il fumo cominciava a bruciargli gli occhi da morire.
O almeno credeva fosse questo il motivo.
Tergesteo
Erano passati una notte ed un giorno.
Al tramonto successivo Tergesteo si recò sulla collina.
Il cielo alle sue spalle stava diventando vermiglio, mentre dalla parte opposta la notte si faceva strada.

Restava ancora qualche brandello di tempo.
La pira - o meglio quanto ne restava - era spenta, benchè qualche filo di fumo pigramente s'alzasse dal letto di cenere , in cui nuotavano tizzoni anneriti come relitti di un naufragio.

Il folle recava con sè un involto nero, di forma allungata.
Si fermò ad osservare i resti del rogo.
Resti.
Brandelli.
Relitti.
Frammenti.
Schegge.

Quanti nomi reca con sè ... la fine?

Si impose di distogliere lo sguardo.
Si diresse poco più in là, al limitare della collina.

Il tempo porterà con sè quei tizzoni bruciati.
Sarà compito dell'acciaio sfidare il tempo e ricordare.

Sciolse quell'involto e ne estrasse una spada, abbandonando la stoffa che la custodiva a terra.
La soppeso come volesse abbeverarla degli ultimi raggi solari.
Sole e acciaio.
Sublime.

Sulla lama , come suo costume , aveva inciso qualcosa, poco sotto l'impugnatura.
L'incisione recava due figure vagamente riconoscibili che ad uno sguardo attento si sarebbero detto una donna ed una bambina, mano nella mano.
L'incisione non era delle migliori, ma di sicuro l'autore ne privilegiò il significato non l'estetica.

Finito che ebbe di soppesare la spada, con violenza la conficcò a terra, a perpendicolo.
L'arma penetrò nel suolo fino a metà lama, poi si arrestò.

Tergesteo afferrò da terra il drappo che avvolgeva la spada.
Era un drappo nero, con una grande ala dorata nel mezzo.

Lo aprì, si che al vento della sera potesse sventolare un poco.
Sembrava che quell'ala volesse spiccare il volo.

Con cura, avvolse la lama della spada rimasta all'aere con quella bandiera.
Poi, senza fretta, si mise a scegliere con cura dei sassi, con i quali cominciò a formare una piccola piramide attorno alla spada, ricoprendo la bandiera avviluppata.

L'operazione si concluse quando ormai il sole era calato e la notte viva.

La mano sinistra del folle indugiò su quell'improvvisato monumento.
Accarezzava l'acciaio dell'elsa, per poi scendere alla lama e alla stoffa e terminare sulle pietre appuntite.
La cicatrice sulla mano opponeva una tenue resistenzaallo scorrimento della mano.

Si sedette a terra , le mani ad abbracciare le ginocchia , come a voler ripararsi dal freddo.

Stette in questa posizione per qualche tempo, poi lentamente si fece scivolare accanto a quella costruzione.
Raggomitolò le gambe, chiuse gli occhi.
Era indifeso.
Alla mercè della propria Follia , la quale crudelmente conosce la pietà.


"Lasciami che io trascorra la notte qui , e provare a credere, per una volta, che essa porti consolazione.
Verrà il tempo di andare.
Domani, domani ..."
Tergesteo
Quanto era trascorso?
Mesi? Anni? Una vita?


Soltanto l'acciaio che andava scurendosi e la stoffa disgregandosi indicavano imperterrite lo scorrere del tempo.
Ma per il Folle il tempo sembrava essersi fermato.
Il tempo è un susseguirsi di avvenimenti.
Nulla perciò sembrava scandire il gocciolare della sabbia nella clessidra.

Tergesteo stazionava di fronte a quella lapide.
Ci ritornava di quando in quando ma mi come in quel periodo aveva sentito il desiderio di essere la.

In mano recava una missiva, vergata con tratto vigoroso eppure intimamente corroso dall'incertezza.
Scostò un paio di pietre e infilò quella pergamena fra quello che restava del drappo consunto.
Ricollocò le pietre.


"Quanto ancora dovrò aspettare? Quanto?" sospirò.

Stette su quella collina tutta la notte.
Ad aspettare con qualcuno, il tempo scorre più rapido.
Tergesteo
L'alba.
La luce che torna a violenatre gli occhi.

Tergesteo satva là, seduto presso quel cumulo di sassi.
Abbracciava con le mani le ginocchia per combattere il freddo.
Donde provenisse quel frigore, diffcile di dirlo.
Poteva parimenti venire dalla terra , dalla notte, da una tomba o..dal di dentro.

Stranamente il folle ondeggiava e sillabava una nenia, uno di quei stornelli da taverna che si cantano in coro ebbri di vino e che parlano di amori e di eroi.

Sembrava un lamento, ma il Folle soltanto ricordava.




Densa è la notte nell'alcova
dai fiumi d'incenso un sogno avanza.
Miraggio di te.
Contro la tua immagine è impotente la stanchezza,
inutile del laudano la solita carezza.
Dimmi perchè
tu sai di sangue e acciaio, penetri il mio mondo
come quella pura lama dell'Arcangelo Michele.
Ma dietro di te un dio più antico chiama ...

Con la tua uniforme, mio Soldato
mi sembri un Re, d'oro e fuoco adornato.
Non è solo per lei che t'ho notato ...
E' l'Uomo che mi fa cadere ...

Oh, perdonate l'ardire, mia Signora
ma non resistevo oltre.
So che per voi potrei forse morire
certo, ma meglio che al fronte!
Oh, schiudetemi l'antro dell'oppio
l'ambrosia che accelera il cuore,
che tra due giorni tornerò in quell'inferno,
o mi diranno "disertore!"

Tocca la Follia ora, è generosa
per stanotte non occorre domandare.
E' una sinfonia nera , ma preziosa,
vedrai che anche l'Abisso può curare ...

Oh, conquistami, mio Soldato
stanotte è la nostra occasione.
Avrai qualcosa da ricordare
là, tra il cozzare di spade!
Oh , tienimi stretta Militare
prendimi ancora più forte!
Non è nulla ma certamente
lo so di abbracciare la morte...


L'alba.
Tergesteo si alzò.
Si sfilo l'amato pugnale dal fodero.
Passò la lama su di una cicatrice antica.
Il sangue riprese a gocciolare su di una tomba.


"Rammenta ancora ... non dimenticare mai!"
Tergesteo
La sacca era stesa a terra ,poco distante dai piedi.
Era una quelle sacche di stoffa ruvida, chiusa da un legaccio di cima di canapa come sulle imbarcazioni se ne vedono a bracciate.
Quella sacca sbiancata dal sole e dal salso era stata riposta in un angolo per lungo tempo.
Dimenticata mai.

Si poteva a buon diritto credere che quella sacca fosse come un contenitore tangibile di ricordi.
Era con Tergesteo quando partì da casa , nuova nuova , e fresco d'imbarco iniziò a farsi bruciare gli occhi dal sole del Mediterraneo.
Era con Tergesteo quando ci cacciò dentro i primi dolorosi ricordi ma che poi come crisalidi si schiusero nei sorrisi delle sue figliole.
Era con Tergesteo in un'alba livida di Milano.
Era con Tergesteo in un'alba di vittoria a Modena e in un'alba di sangue a Mirandola.
Era con Tergesteo , oramai stanca e lacera, quando accanto ad un corpo di donna rientrò a Fornovo.

Quella sacca era di Tergesteo, ma era del Folle il segno esistente di quanto era stato.
Ancora più pesante di ricordi e di responsabiltà, quella sacca di tela ruvida - la stessa in cui si confezionano le vele - attendeva di essere caricata su una spalla e portata lontano.

Ma per il momento, fedele e muta amica, attendeva che il Folle terminasse di salutare una persona cara davanti ad un cumulo di sassi.

Tergesteo indugiava, assorto in quella maledetta nostalgia che gli uomini di mare hanno : quel sentimento bizzarro il quale quando sei per mare ti fa sognare casa , quando sei a casa ti pare di essere prigioniero ed aneli la partenza.
Qualcuno la chiama noia, molti infelicità, tanti nostalgia, pochi fortunati esistenza.

Tergesteo sospirò.
Era tempo di andare.
Lontano o vicino, per poco o per sempre, nulla importava : l'essenziale era andare.
Tanto tutto quello di cui aveva bisogno era con sè e dentro di sè.
Aveva riposto il suo pugnale da combattimento nella sacca.
E lo aveva sostituito col suo vecchio coltellaccio da marinaio, con la lama dalla foggia particolare che s'accompagnava alla caviglia custodita nel fodero.
Un vezzo in omaggio alla memoria.

Per difendersi aveva la sua spada è ovvio ... ma quel vecchio coltello era un suggello al viaggio.
Indispensabile.

Volse le spalle al suo cuore e si caricò della sacca.
Il legaccio che fungeva da manico gli segava la spalla con la sua fibra grezza.
Quanta di quella cima gli aveva graffiato le mani nel cazzare a ferro le drizze e preparare il sartiame!.
Eppure erano tutte morbide carezze in confronto a quella cicatrice.
Una cicatrice contro una ferita aperta dell'anima, un solo taglio ed un'unica promessa.

E il Folle si incamminò.

E canticchiava e sorrideva.
Mormorava una di quelle canzonacce da bettola,
di quelle che fan il giro di tutte le rotte,
così che da Rostock a Genova, da Marsiglia a Jaffa
un marinaio è un marinaio e null'altro.




Quando approdi a Amsterdam
getti l'ancora fra
i sogni d'incanti,
nei canti dei marinai
che nel porto d'Amsterdam
puoi trovare assopiti
come fossero dei
gran pavesi ammainati.

Se vai ad Amsterdam
puoi vederli morire
di ricordi annegati
all'oblò di un bicchiere.
O salpare alla vita
cercando i confini
nei misteri nebbiosi
di amplessi marini.

Nella taverne d'Amsterdam
stanno lì a divorare
fritture grondanti
gli umori del mare
E a mostrare dei denti
da sbranafortuna,
da sgranocchiasartiame,
e da azzanna-la-luna.

Ed in mezzo a fiumane
di pesci e patate
vanno su le manone
per le altre portate,
poi sbaraccan la mensa
e cominci la festa.
Ma in piedi, rollando
e ruttando tempesta.

I marinai di Amsterdam
quando s'apron le danze
si struscian le pance
alle pance di dame.
E riscattano con
fisarmoniche grame
tante notti di veglia
e di freddo e di fame.

E si fan brutti scherzi
per ridere più forte
finché colpita a morte
la musica s'arresta.
Allora bestemmiando,
a fatica diritti,
se ne vanno ondeggiando
come vecchi relitti.

Per le vie d'Amsterdam
ci son dei marinai
che si bevono mari
di birra e di guai.

E che, trinca e tracanna
e continua a brindare,
bevono alla salute
delle puttane di Amsterdam
di Amburgo e di altrove.
Insomma bevono alle donne
che gli danno il corpo grazioso
che gli danno la virtù
per una moneta d'oro

E quando han ben bevuto
da non poterne più
si piantano naso al cielo
a patte spalancate
e pisciano come si piange
su donne infedeli.
--La_rondinella


Ave Signor degli angeli e dei santi
E delle sfere erranti,
E dei volanti - cherubini d'ôr.
Dall'eterna armonia dell'Universo
Nel glauco spazio immerso
Emana un verso - di supremo amor:
E s'erge a Te per l'aure azzurre e cave
In suon soave

O roridi vapori!
O stelle! o fiori - cui non vizza il gel!
Qui eterna è l'ora: a misurar non vale
Egro tempo mortale
L'inno ideale - che si canta in ciel.
La nota umana faticosa e grave
Qui non si pave.

Qui la smarrita fuga dei viventi,
Le storie delle genti,
E le dementi - pompe di chi muor,
Passano ratte al par d'arche veliere
O di nubi leggiere,
A schiere a schiere - in fluttüante error.
Oriam per quelle di morienti ignave
Anime schiave.

Ave Signor. Perdona se il mio gergo
Si lascia un po' da tergo
Le superne teodíe del paradiso;
Perdona se il mio viso
Non porta il raggio che inghirlanda i crini
Degli alti cherubini;
Perdona se dicendo io corro rischio
Di buscar qualche fischio:
Il Dio piccin della piccina terra
Ognor traligna ed erra,
E, al par di grillo saltellante, a caso
Spinge fra gli astri il naso,
Poi con tenace fatuità superba
Fa il suo trillo nell'erba.
Boriosa polve! Tracotato atòmo!
Fantasima dell'uomo!
E tale il fa quell'ebra illusïone
Ch'egli chiama Ragione.
Sì, Maestro divino, in bujo fondo
Crolla il padron del mondo,
E non mi dà più il cuor, tanto è fiaccato,
Di tentarlo al peccato.


Il più bizzarro pazzo
Ch'io mi conosca, in curïosa forma
Ei ti serve da senno. Inassopita
Bramosia di saper il fa tapino
Ed anelante; egli vorrebbe quasi
Trasumanar e nulla scienza al cupo
Suo delirio è confine. Io mi sobbarco
Ad aescarlo per modo ch'ei si trovi
Nelle mie reti; or vuoi farne scommessa?

Sia! Vecchio Padre, a un rude gioco
T'avventurasti. Ei morderà nel dolce
Pomo de' vizi e sovra il Re de' cieli
Avrò vittoria!
Tergesteo
A oriente il sole stava accedendo un magnifico incendio che di quando in quando una striscia di nubi , come volute di fumo, tentava di oscurare.
L'alba era tiepida a dispetto del mese di ottobre , quando i tini sono riempiti e la terra già pregusta il sonno invernale.

La terra. Il sonno. L'inverno.

Tergesteo si chinò su quel mucchio di sassi. Stavoltà però le sue mani non si diressero nè sul ferro nè sulla pietra, ma sprofondarono nelle terra ammorbidita dalle piogge precedenti.
La stessa terra che come un ideale sudario ricopriva un ricordo.
Lei là non c'era . Era volata via col fuoco.
Ma per Tergesteo fuoco era sinonimo di azione così come la terra di riposo, di immobilità.
Vedeva qundi quell'elemento come esemplare nel descrivere il riposo , il sonno di colei che nel sonno lo vegliò , sconvolto dagli incubi , così come talvolta soleva accompagnarlo nelle lunghe veglie modenesi.
Lei era la sua follia e allo stesso tempo il suo ristoro.

Tergesteo si levò, sì da godere dell'alba.
Un romore di carta d'una missiva infilata nella giubba gli rammentò la sua situazione.
Il suo era l'Inverno.
Oramai credeva di aver imparato a sopportare ed addolcire quel frigore che lo attanagliava da quella cupa giornata di giugno.
Credeva.
Sperava.
Ma come un lupo , sentiva l'approssimarsi di un inverno ancora più gelido.
Ripensò a quella missiva.
Strinse gli occhi : anche la disperazione impone dei doveri.
Era tempo.
In un modo o nell'altro, era tempo.

Man mano che il tempo passava ,comprendeva.
In quell'ultimo fuoco s'era spento il suo calore ed era sopraggiunto l'Inverno.
Avrebbe dato qualunque cosa per riscaldarsi ancora alla sua fiamma.

Si sorprese a mormorare.


" Nella mia patria ti porto perché non ti sfiorino
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non giunga l'assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai in pace.

Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grandioso che viene dalla steppa, dal freddo?
Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve?
Sorella, sono i tuoi passi.

E passeranno un giorno dalla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri appassiscano;
passeranno per vedere quelli di un giorno, domani,
dove stia ardendo il tuo silenzio.

Un mondo marcia verso dove andavi tu, sorella.
Ogni giorno cantano i canti delle tue labbra
sulle labbra del popolo glorioso che tu amavi.
Col tuo cuore valoroso.

Nei vecchi focolari della tua patria, sulle strade
polverose, una parola passa di bocca in bocca
qualcosa riaccende la fiamma delle tue adorate genti,
qualcosa si sveglia e comincia a cantare.

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il nome tuo
noi che da ogni luogo delle acque e della terra
col tuo nome altri nomi taciamo e pronunciamo.
Perché il fuoco non muore
"

Era tempo.
Era tempo di riaccendere i fuochi e mandar via l'Inverno.
--Lafolliaditergesteo
La follia lo guardava divertita, seduta sull’erba con le mani che poggiavano dietro.

I suoi lunghi capelli toccavano il suolo ogni qualvolta ella rideva.

Rideva di quell’uomo che cercava sempre di lasciarsela dietro, credendo di poterne fare a meno. Rideva di quegli sprazzi di lucidità che lo facevano soffrire, che gli contorcevano le budella.

Lei gli porgeva la mano, gli offriva una speranza di verità e oblio.


“Scopri e dimentica Tergesteo, io ti ho scelto perché tu possa conoscere ma nessuno ti può credere perché la verità ha un prezzo troppo alto per la coscienza. Tu hai scelto di soffrire, non dovevi innamorarti, avevi già me”

Tergesteo si voltò a guardarla. “Perché ti mostri come donna adesso?”

La follia si alzò in piedi e gli andò incontro. “Ti ho mostrato esseri mostruosi e deformi ma nessuna immagine ha lasciato in te tracce profonde come quella donna. Adesso gioco con le tue debolezze in modo che ti torni la voglia di lasciarmi condurre le danze. Non resistermi Tergesteo, sarebbe una battaglia persa, io sono la parte migliore di te”.

Tergesteo sorrise e le voltò le spalle. I suoi pensieri lo portavano altrove indispettendo la sua follia.

“E’ strano, passi la vita inseguendo un sogno … e poi ti accorgi che la tua isola felice era un passo da te, che basta allungare appena una mano per sentire l’onda che sfiora la riva e il tuo cuore che dice: sono arrivato”.

La follia scosse la testa “Come devo fare con te Tergesteo? Non impari dai tuoi errori. Davvero ti illudi che saresti stato felice? Non lo sarai neppure dopo aver ucciso uno per uno coloro che chiami nemici. Ti sei svegliato prima dell’alba, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell’acqua ed ecco il tuo nemico: l’hai trovato”
Tergesteo
Tergesteo si lasciò cadere a terra , la faccia rivolta verso l'alto , le braccia tese : sembrava volesse abbracciare il cielo.
Sorrise.

"Imparare dagli errori? I savi imparano, i folli sbagliano.
Altrimenti non sarebbero tali, mia bella signora .... "


Vide il volto della donna sopra di sè, con i capelli che le incornciavano il volto.
Sembrava quella dolce figura che in qualche suo sogno gli si presentò come la Morte.
Tergesteo la guardava con gli occhi trasognati.

Fosse stata la Morte o la Follia o qualunque altra cosa, in quel momento era distante dal mondo, sospeso.
In effetti la Follia non veniva a visitarlo da molto tempo e rivedere quella fedele amica lo rese felice.


"Io non voglio essere felice. Io voglio cercare la felicità.
Non mi interessa raggiungere uno scopo : quella sarebbe la fine.
Io voglio cercare ... inseguire ... sognare"


Allungò la mano.
"Danza con me ..."

La Follia gli strinse la mano e lo trasse a sè.
Ma quella mano .. quella mano ... aveva qualcosa ...

E fu in quel momento che Tergesteo si sentì davvero folle ...


"Danza .. con ..me " ebbe solo la forza di mormorare....
--Lafolliaditergesteo
"Danza .. con ..me " Un sussurro, la firma su un contratto che le consegnava la sua anima. La follia sorrise e lo strinse a sé, assaporando la sua vittoria. Conduceva lei le danze. Quell'uomo avrebbe smesso di soffrire adesso.

Un canto si arrampicava nell'aria resa gelida dalla prima pioggia. La voce della follia accompagnava quel ballo fuori dallo spazio e dal tempo.




Verrò quando sarai più triste,
steso nell'ombra che sale alla tua stanza;
quando il giorno demente ha perso il suo tripudio,
e il sorriso di gioia è ormai bandito
dalla malinconia pungente della notte.

Verrò quando la verità del cuore
dominerà intera, non obliqua,
ed il mio influsso si di te stendendosi,
farà acuta la pena, freddo il piacere,
e la tua anima porterà lontano.

Ascolta, è proprio l'ora,
l'ora tremenda per te:
non senti rullarti nell'anima
uno scroscio di strane emozioni,
messaggere di un comando più austero,
araldi di me?


La follia smise di cantare.

Gli carezzava il viso come la brezza poteva accompagnare una vela prima di lasciarla in balia del vento. Rassicurava Tergesteo con quel tocco leggero e gentile.


"Smetti di sognare amico mio. I sogni si infrangono e ti rimangono in mano a lungo dopo esser diventati cenere. Dove ti trovi adesso è dove sei. Puoi aver concepito uno smisurato desiderio di trovarti altrove, facendo altro, ma tu non sei là, sei qui. Guardami: fai esperienza di questo momento in tutta la sua pienezza".

Così dicendo si staccò da lui e lo guardò. Stava tornando, mancava poco e sarebbe tornato com'era prima che giungesse lei. Aveva rovinato tutto aprendogli uno spiraglio verso la normalità e verso la conseguente infelicità.

Lo aveva capito subito che era un pericolo, da quella notte in cui l'aveva vista vegliare i sogni di Tergesteo. Era un momento tutto loro il sogno e lei invece si era piantata lì, a spiare il suo lavoro e a tendergli una mano al risveglio.

Che grande invenzione la giustizia degli uomini, c'era una remota possibilità che lei morisse e neppure la follia aveva mai sperato tanto eppure, anche senza il suo intervento, giustizia era stata fatta, e rifatta, e rifatta ...
Tergesteo
"E' l'ora ... è tempo..."
La Follia lasciò nella sua mente un monito.
Tergesteo si ritrivò spossato e disorientato , come accadeva nelle notti orribili e deliranti sulle mura di Milano.
Era tempo.

Scivolò sul cumulo di sassi.
Cominciò lentamente a scostarli finchè vede comparire un drappo stinto e logoro.
Smosse i sassi quel tanto cge bastava a estrarre quel drappo.
Il color dell'oro s'era dissolto.
Ma il nero color della notte in alcune zone resisteva.


Piegò con cura quel vessilo e lo nascose nella giubba, dalla parte del cuore.
"Sorellina, una parte di promessa s'adempiuta. Ora ti chiedo ancora di accompagnarmi fino al momento supremo.
Resta con me fintanto che non ti raggiungerò ... e questa volta sarà ... per sempre."


Il Folle si guardò la mano sinistra ... quello che gli restava non era la cenere di un sogno, ma una promessa.

Era tempo.
Il Folle si caricò la sacca sulla spalla.
Il cammino era lungo.
Il tempo poco.
--Lafolliaditergesteo
Un sasso alla volta cedette sotto la mano segnata di Tergesteo. Lo vide scostarli lentamente, come se fossero di materiale fragile e prezioso, fino a disseppellire la bandiera di Ananke e prenderla con sé.

"Sorellina, una parte di promessa s'adempiuta. Ora ti chiedo ancora di accompagnarmi fino al momento supremo.
Resta con me fintanto che non ti raggiungerò ... e questa volta sarà ... per sempre."


Fu allora che comprese dove era diretto e tentò di fermarlo.

“Tergesteo, ascoltami. Una cosa non è necessariamente vera perché una persona è morta per realizzarla. Chi cerca giustizia verrà giustiziato, lo dovresti sapere”.

Lui continuava imperterrito a sistemarsi la sacca. “Morire, non ripiegare Capitano!”

“Tergesteo fermati, cambia strada adesso. Credi che Danitheripper meritasse tutto questo?”

A quella domanda vide che si irrigidiva, che il suo sguardo diveniva assente, tutta la sua persona sembrava concentrata in uno sforzo tremendo.
Strinse il pugno.
“In quel selvaggio abisso, grembo della Natura e, forse, tomba, che non è mare o sponda, aria né fuoco ma lor cause pregnanti in sé commiste, confusamente, in una lotta eterna, se il Fattore Possente non costringe queste oscure materie a farsi mondi, nell'abisso selvaggio, cauto, Satana sostava all'orlo dell'inferno, e vide, e ponderò il viaggio ...” disse con una voce strana, metallica.

La follia gli si avvicinò e lo guardò stupita. Improvvisamente si rese conto che lui non c’era più: il suo pensiero e forse la sua stessa anima erano altrove. Percorrevano misteriosi sentieri, esploravano territori remoti e algide distese nevose. Vagava sui monti, portato dal vento, tra le foreste di abeti e i picchi aguzzi, volava sulla superficie di laghi ghiacciati, silenzioso e invisibile come un rapace notturno. Le sue sicurezze si sbriciolarono. Lo avrebbe accompagnato, ma non le apparteneva più. Quell’uomo apparteneva al proprio passato, ai propri ricordi.

"Tergesteo, svegliati adesso! La tua gente dorme il sonno dei miseri e degli stolti, hanno bisogno di te qui, a Milano. Eri un soldato, combatti per quello che eri. Orrore e dubbio confondono i tuoi pensieri affranti, e dal profondo l'Inferno ti si agita dentro, poiché l'Inferno hai dentro di te, l'Inferno attorno a te, possibile che non ci sia passo che valga ad allontanarti dall'Inferno che in te alberga?"

“Mia follia, mia compagna, solo il fiume è simile alla mia pena: scorre e non si esaurisce. Non ho completato il mio percorso. Addio speranza, e con la speranza, paura addio, addio rimorso: ogni bene a me è perduto. Male, sii tu il mio bene”.

"Tergesteo tu non sei folle, sei solo"
gridò a due spalle che neppure una sporta pesante riusciva a piegare.
Tergesteo
La strada di terra battuta scende dolcemente dalle colline fuori Fornovo.
Sembra indugiare,indolente, come se avesse pena a lasciare quei colli e quella città.

Forse per questo il Fato disegnò quei boschi e quei luoghi in modo che, al crocicchio che biforca la strada e rimanda da una parte a Modena e dall'altra a Milano, si possa ancora vedere le colline e parte delle mura di quella città , che è porta meridionale del ducato milanese.

Tergesteo decise, lasciata la sepoltura , di non volgersi.
Tuttavia a quel crocicchio, novello Orfeo, decise di voltarsi ed alzare la testa.
Ancora una volta.
Quel mucchio di sassi stava lì.
Lo fissava.
Lo ammoniva o forse lo scongiurava.

Il Folle si arrestò.
Torse la bocca per rabbia o per dolore.
Chiuse gli occhi e chiamò a raccolta i suoi demoni più stentorei , affinchè udissero, lontano, le genti .
Mancavano undici forche e quell'urlo doveva scuoterne le corde.


"Infrango la mia voce e grido : abbandonami!
La mia voce arde nei venti, la mia voce che cade e muore.

Stanco.
Son stanco.
Fuggi.
Allontanati. Estinguiti.
Non imprigionare la mia sterile testa tra le tue mani.
Mi segnino la fronte le fruste del gelo.
La mia inquietudine si sferzi con i venti del Nord.
Fuggi.
Allontanati. Estinguiti.
La mia anima deve star sola.
Deve crocifiggersi, sbriciolarsi, rotolare,
versarsi, contaminarsi sola,
aperta alla marea dei pianti,
ardendo nel ciclone delle furie,
eretta tra i monti e tra gli uccelli,
distruggersi, sterminarsi sola,
abbandonata e unica come un faro di spavento.
E di dolore."


Tergesteo cadde in avanti.
Aprì gli occhi chiusisi in precedenza per lo sforzo.
Non aveva coraggio di guardare ancora.
Quasi impossibile rialzare la testa.

Anche per illudersi però ci vuole coraggio.
Sommessamente quell'uomo si levò e riprese il cammino.

Come un qualunque pellegrino con dentro la pena e fuori il sorriso.
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