Sonomorto
Scorro come fossi pioggia lungo le mura di Zenica, ai margini del finimondo dei vivi.
Le urla sono il canto che accompagna i miei passi.
Il grido spettrale e acuminato del metallo sguainato sostiene il ritmo delle mie mani, che cercano appigli, in questa salita.
Si fa sordo, di tanto in tanto, ogni volta in un luogo diverso, se penetra e affonda nelle carni di qualcuno, sorpreso nellatto di provare a sua volta ad affondare metallo nella carne di un altro.
Altrimenti è nudo e squilla quasi, se il colpo non ha raggiunto il suo fine e lo scudo avverso ha fatto il suo dovere.
Siedo quassù sulle mura, ora, con i miei nervi lacerati e tesi.
Sarebbe un guaio se qualche oggetto, scagliato con tuttaltro obiettivo dalla ferocia imprecisa di qualcuno, dovesse finire col colpirmi, staccandomi qualcosa.
Quel mio pezzo perduto sarebbe perduto forse per sempre in questo finimondo. E in ogni caso non ci sarebbe modo di recuperarlo, almeno finché non cesserà il delirio dei corpi dei vivi, ansiosi di far fioccare sangue dai corpi di altri vivi.
Ho anchio la mia spada. Tempo fa lei mi ha armato, fiduciosa.
Io ho adeguato il dono un po a ricordo, un po a portafortuna.
E me la porto dietro come un vivo porterebbe un anello, come un nuovo morto porta sugli occhi monete che nessun traghettatore arriverà mai a reclamare.
La mia vista annebbiata cerca lei. E non fatica a trovarla.
Sedevo qui anche ieri, quando lei ha affondato nelle carni di una donna la sua durlindana, con una ferocia che doveva provenirle da fuori, da qualche altro luogo o da qualche altro tempo, da un fatto del passato.
Scaricata tutta quella ferocia e tutta la sua forza nel colpo, ha faticato poi ad estrarre la lama dalla carne di quella donna.
Nessuno, nei dintorni, né in nessun altro luogo, ha potuto isolare il rantolo della donna e il suo urlo di esultanza. Erano un unico suono.
Da allora aspetto.
Quando è il momento, abbandono il mio posto sulle mura.
Scendo con movimenti sicuri da vivo.
Attraverso il delirio e il furore con tranquillità da morto. Mi avvicino a lei.
Il suo sangue mi scorre sulle braccia mentre la abbraccio e la sollevo.
Le sue labbra socchiuse testimoniano inascoltate quanto stanno vedendo i suoi occhi socchiusi.
Che cosa vedi? Le sussurro, senza aspettarmi risposta.
Me la porto via da lì, attraversando con calma il delirio dei corpi esaltati. Qualche goccia di sangue non sua arriva fino a noi, di tanto in tanto, da chissà dove, dal corpo di chissà chi.
Cè un enorme ghigno, è tra le poche cose che vedo bene, in fondo a tutto questo carnaio.
Eppure, mi ritrovo a pensare, forse un giorno si scatenerà la guerra definitiva, forse un giorno noi ci scaglieremo mossi da assurda vendetta contro i vivi.
E allora la guerra sarà una guerra dal destino segnato.
Basterà, per noi morti, reggere solo allinizio.
Perché, poi, i primi caduti tra i vivi si rialzeranno morti e raccoglieranno le armi con cui ci fronteggiavano, per combattere al nostro fianco contro i vivi.
La processione dei vivi non più vivi fluirà inarrestabile a rafforzare le nostre fila, come sangue da una ferita insanabile.
Finché il mondo non sarà nostro. Finché al mondo non ci saranno che morti.
Mentre mi allontano stringendola tra le braccia, assurda sensazione in quel groviglio affollato di corpi, avverto lo sguardo di qualcuno.
Mi volto.
Una donna, non armata, non più viva, ci sorride.
Immobile e serena, proprio al centro del furore della battaglia.